Era il 5 gennaio del 2010 alle una e trenta del mattino. Un posto buio e freddo. Eravamo 54 persone di età, provenienza e genere diversi, tutte accomunate da un sogno: cambiare la nostra vita e quella della nostra famiglia. Molti hanno paura, altri no, sono più tranquilli. Partiamo a piedi per raggiungere la spiaggia dove ci attende un barcone per partire… due ore di camminata in silenzio, rotto solo dalla nostra “guida” marocchina che ci tranquillizzava. 

Vicino a me un ragazzo di soli 14 anni con cui inizio a parlare dopo un po’ mi presenta suo padre Abdù e la sua famiglia. Il mio bagaglio, un sacchetto di plastica con un cambio, un paio di scarpe nuove, frutta

Ci danno una bottiglia d’acqua. 50 persone a 1000 euro sono 50.000 euro da dividere fra poliziotti, mafia e scafisti. 

Alle 3.30 arriva il messaggio che si può partire, è in questo momento che iniziano a scendere grosse lacrime… che fine faremo, avremo un futuro?

La partenza è stata da paura: gente in piedi che litiga per un piccolo spazio, botte… lo scafista urla che sarebbe tornato indietro, e allora cala un silenzio che faceva ancora più paura.

Il gommone potrebbe trasportare fino a 400 kg ma noi saremo 10 volte tanto. 

Dopo un’ora di mare è sempre più agitato, le persone iniziano a vomitare, urlare, e la paura prende tutti: sentiamo la morte vicina. In questa situazione tragica si spegne un motore e l’assistente scafista fa una manovra sbagliata, tante persone cadono in acqua. 

Mi sono aggrappato al gommone. Sono stato fortunato e mi sono salvato ma ho visto Abdù affogare a due metri da me. Sono rimasto fermo, impotente. Non avrei potuto fare niente. 30 persone sono morte in quell’attraversata, altre 45 su un altro gommone. L’ho saputo dopo dai miei famigliari. Ho visto la morte negli occhi!